mercoledì 19 gennaio 1994

Marvels

Marvels *** (USA 1994, col, pag. 216) Soggetto: Mark Waid. Disegni: Alex Ross. New York, fine anni trenta. Il giovane fotografo Phil Sheldon insegue qualunque fatto di cronaca gli permetta di collaborare con quotidiani e rotocalchi. La Seconda Guerra Mondiale incombe, forse una strada dura ma sicura. Sheldon cerca di farsi inviare in Europa, ma qualcosa succede a NYC: la metropoli si popola di esseri dai poteri straordinari, che conducono folli battaglie, sventano minacce venute dallo spazio. Il fotoreporter ha trovato il soggetto della sua opera: le “Meraviglie”. In un arco di trentacinque anni pubblica libri ed articoli sui superuomini americani, per tornare, alla fine della sua carriera professionale, a puntare l’obiettivo verso sé stesso, la sua famiglia, la quotidianità che aveva scordato.

Pamphlet autocelebrativo della Marvel Comics, che non tralascia proprio nulla della vita editoriale che la rese celebre negli anni sessanta (l’arrivo di Galactus e la morte di Gwen Stacy in primis), senza trascurare i comic book della Golden Age – le primissime storie di Sub-Mariner e di Capitan America & Bucky, poco note da noi.

Il racconto è svolto con illustrazioni iper-realistiche, a sancire il proposito velatamente ricattatorio dei testi – “noi eravamo lì, abbiamo sofferto con le Meraviglie, avuto paura, gioito e pianto” -, ma scomodare addirittura Norman Rockwell, come certa critica italiana, per pur bellissimi acquarelli, sembra eccessivo: essi suggeriscono analogie piuttosto con le vecchie copertine de “La Domenica del Corriere”, delle quali Alex Ross, pur americano, ne sposa la filosofia dello “strano ma vero”.

“Marvels” è stato serializzato nel 1994 in un formato – e con intenti – che lo ponevano al naturale testimone del cosiddetto Rinascimento Americano (“Dark Knight Returns”, “Watchmen”), ma ironicamente di quel periodo ne è anche l’epitaffio: da allora in poi l’Autore lascia il posto alla macchina produttiva a base di colori digitali, ipertrofie ed architetture barocche, confezionati in volumi con ologrammi, copertine “variant”, e mille espedienti di marketing, che affosseranno per anni le vendite e la fiducia dei lettori del genere supereroistico.

Successo comunque planetario per questa graphic novel, che ha ricevuto decine di ristampe in tutto il mondo. In Italia sono state pubblicate tre diverse edizioni, due cartonate ed una economica: quest’ultima, per la biblioteca di Repubblica, mostra pericolosamente che l’autore dell’introduzione non ha mai letto l’opera. Nella medesima edizione le tavole sono bellamente tagliate ai bordi laterali.

domenica 16 gennaio 1994

Death: The High Cost of Living

Death: The High Cost of Living *** 1/2 (USA 1994, col, pag. 104) Soggetto: Neil Gaiman. Disegni: Chris Bachalo, Mark Buchingam. Nel mezzo d’una discarica Newyorkese fanno fortuita conoscenza Sexton, confuso sedicenne figlio di separati - che confidata al computer la sua determinazione a suicidarsi -, e la bella punk-rocker Didi, poco più che coetanea, disadattata anch’essa: recenti lutti e cascate di pensieri bizzarri. I due consolidano nel giro di ventiquattr’ore, quasi senza dormire, una strana amicizia [lui: “Senti, tu non mi piaci, hai capito?”], che vede come sfondo frenetiche discoteche, pericolosi bassifondi, fast-food appena aperti all’alba, ed un susseguirsi di eventi attraverso i quali i due - in realtà la stessa Didi ci avvisa [come si intuisce sin dal titolo] d’essere molto più di ciò che appare - saranno coinvolti in un tragico gioco ben più grande di loro.

Favola urbana con pochissimi momenti di azione, nel suo caleidoscopio d’ambientazioni predilige indugiare sugli aneddoti raccontati da terze persone, o su commosse caratterizzazioni dei personaggi di contorno.

La sceneggiatura dell’inglese Gaiman, debitrice più del viaggio americano su pellicola di Schlesinger, e di certe atmosfere del team O’Neil/Adams fine anni sessanta, più che dei registri tipici del genere supereroistico, nel cui mainstream pure si inserisce [Death/Didi è la sorella del signore dei sogni Sandman, con cui già giocò Jack “Re” Kirby negli anni ‘70], è, salvo qualche piccola sbavatura, assolutamente perfetta nel costruire una parabola del disagio esistenziale, nei significati che la morte ci obbliga ad attribuire ad una vita di passaggio.

Dalla sua il disegnatore Bachalo, che in altre prove ha mostrato troppa dedizione agli sperimentalismi riciclati da Sienkiewitz di “Stray Toaster”, qui s’abbandona ad un naturalismo adeguato alla vicenda, arricchito dalle caratterizzazioni di certa vignettistica stile New Yorker, ancorché perfezionata dal gusto fumettistico inglese (i tratteggi di Brian Bolland, le linee soffici di John Bolton).

La coppia d’autori, gratificata dalle rispettive performance, tornerà al lavoro su un seguito, “Death: The Time of Your Life”, nonostante Didi ci avesse avvertito che quella era una giornata particolare: avviene una volta in un secolo.

Se nel frattempo non si riesce a togliere questo volume dal comodino, s’è giustificati da molte ragioni, non ultima l’originale cover di Dave McKean con sovrimpressioni in oro (rispettate meritevolmente dall’editore italiano).

Ma la menzione speciale va al veterano Steve Oliff, i cui bellissimi colori sembrano condurci a passeggio in una Grande Mela di leggere brezze, suoni soffusi e profumi d’autunno.